Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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I poteri del giudice nel principio di necessaria correlazione fra accusa e sentenza (di Lorenzo Pelli)


Non sussiste alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza quando sia stato lo stesso imputato a precisare gli elementi di fatto sulla base dei quali il giudice è pervenuto alla diversa qualificazione giuridica del fatto.

The power of the judge regarding the principle of necessary correlation between the accusation and the sentence

The principle of correlation between the accusation and the sentence is not violated if the defendant himself specified the factual elements, based on which the judge reached a different legal qualification of the fact.

SOMMARIO:

Profili generali - La vicenda processuale in sintesi - Il background teorico e giurisprudenziale del principio di correlazione fra accusa e sentenza - Diversità del fatto - Il principio di correlazione nelle impugnazioni - Conclusioni - NOTE


Profili generali

Diretto a tutelare il diritto di difesa e, per l’effetto, le imprescindibili garanzie connesse al contraddittorio circa il contenuto dell’accusa, il principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza impedisce che l’imputato possa essere giudicato e condannato per fatti relativamente ai quali non abbia potuto difendersi in modo pieno ed effettivo [1]. Questa la ratio del principio in esame. Senonché, l’art. 521, comma 1, c.p.p. ha fin da subito suscitato un’accesa querelle fra gli interpreti soprattutto in considerazione della notevole ampiezza dei poteri che questa norma attribuisce al giudice nella prospettiva del diritto di difesa. Tale dibattito è stato notevolmente amplificato all’indomani dei punti di approdo cui è pervenuta la giurisprudenza della Corte e.d.u. che in numerose occasioni si è occupata del tema e, segnatamente, dopo il caso Drassich c. Italia [2]. In questa occasione la Corte di Strasburgo, intervenuta in un caso di riqualificazione effettuato direttamente in sede di legittimità senza essere mai stato evocato in precedenza, ha affermato il principio di diritto secondo cui l’imputato deve essere messo nella condizione di essere tempestivamente informato in maniera dettagliata sulla natura e sui motivi dell’accusa mossa a suo carico con riguardo non solo ai fatti materiali, bensì anche alla loro qualificazione giuridica. L’art. 521, comma 1, c.p.p. ha, infatti, stabilito che il giudice è legittimato a dare ex officio al fatto una differente qualificazione giuridica rispetto a quella racchiusa nel capo d’imputazione esplicitando solamente due limiti a questo potere del giudicante: il reato, così come riqualificato, non può eccedere la sua competenza, né essere attribuito alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale. Come vedremo meglio nel prosieguo, il diritto vivente ha elaborato alcuni limiti ulteriori al potere del giudice di riqualificare extra petita il fatto e, segnatamente, il divieto di reformatio in peius, l’obbligo di decidere sul medesimo fatto contestato e la preclusione di riqualificazioni “a sorpresa”. L’attuale disciplina ricalca senza sostanziali modifiche la normativa del previgente codice di rito contemplata dall’art. 477, comma 1, c.p.p. 1930, nonostante nel progetto preliminare del [continua ..]


La vicenda processuale in sintesi

La pronuncia in esame concerne la tematica della correlazione fra il chiesto ed il pronunciato in relazione ad un caso di evasione fiscale. Nella specie, veniva affermata la penale responsabilità dell’imputato, rinviato a giudizio e condannato in primo grado dal Tribunale di Ravenna per il reato di cui all’art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, dalla Corte d’appello di Bologna che, in parziale riforma della sentenza di primo grado, lo condannava alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione con concessione della sospensione condizionale della pena e conferma nel resto, previa riqualificazione del reato sub art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000. La derubricazione esperita dai giudici di secondo grado si era resa necessaria alla luce della modifica legislativa apportata dall’art. 4, comma 1, lett. d), d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 che aveva modificato il paradigma normativo del reato previsto dall’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000. In particolare, l’intervento riformatore aveva trasfuso la disciplina delle “operazioni fittizie” dall’art. 4 all’art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000 con ciò sostituendo quale condotta tipica del reato ab origine contestato il requisito dei costi “fittizi” con quello degli elementi passivi “inesistenti”. Atteso che le condotte dell’imputato, così come prospettate non solo in entrambe le sentenze di merito, ma altresì dallo stesso difensore nei motivi aggiunti, costituivano operazioni «fraudolentemente» volte ad evadere il fisco e, dunque, fittizie, la Corte territoriale aveva riqualificato il fatto attribuendogli il nomen iuris di “dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” ex art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000 e non già quello di “dichiarazione infedele” di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000 per il quale l’imputato era stato condannato dal giudice di prime cure. La riqualificazione è, pertanto, avvenuta in base ad una successione di leggi penali nel tempo accedendo ad una definizione del reato più grave rispetto a quella dell’originaria imputazione. L’imputato proponeva ricorso in Cassazione avverso la sentenza di secondo grado deducendo nel primo motivo l’inosservanza ex art. 606, comma 1, lettera c), c.p.p. di norme processuali stabilite a pena di nullità in quanto [continua ..]


Il background teorico e giurisprudenziale del principio di correlazione fra accusa e sentenza

Come già accennato, la sentenza in commento si colloca nell’ambito di un deciso dibattito dottrinario e giurisprudenziale sul principio di correlazione fra accusa e sentenza. Diverse sono le problematiche connesse al tema in quanto l’interprete è tenuto a leggere i poteri del giudice in tema di riqualificazione del fatto scolpiti nell’art. 521, comma 1, c.p.p. contemperandoli, da un lato, con il principio di economia processuale e, dall’altro lato, con il diritto di difesa [8]. Invero, mentre da parte della dottrina si tende ad adottare un’interpretazione rigorosa del principio in esame, anche sulla scia del caso Drassich [9], la giurisprudenza maggioritaria è più propensa, invece, ad abbracciare un’interpretazione maggiormente elastica del principio stesso. Più nel dettaglio, è stato evidenziato come in caso di riqualificazione del fatto, il giudice debba attivare i meccanismi di garanzia del diritto di difesa, stimolando necessariamente il contraddittorio fra le parti circa la propria intenzione di dare al fatto contestato un differente nomen iuris [10]. Secondo gran parte della dottrina, dopo il caso Drassich si poteva tranquillamente affermare la necessarietà della contestazione non solo in caso di “fatto diverso”, ma anche nell’ipotesi di diversa qualificazione giuridica del fatto [11]. Come è stato correttamente rilevato, una tempestiva conoscenza sulla possibile riqualificazione del fatto consentirebbe all’imputato non solo di interloquire efficacemente sulla stessa, ma altresì di garantire un effettivo sviluppo del contraddittorio anche rispetto alle altre parti [12]. Per quanto riguarda la giurisprudenza vi è stata un’evoluzione interpretativa. In un primo momento, la giurisprudenza aveva elaborato il cd. criterio teleologico [13] secondo cui, ai fini della valutazione della corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 c.p.p., doveva tenersi conto non solo del fatto come descritto nell’imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate all’interno del perimetro conoscitivo dell’imputato durante l’istruttoria e che hanno, pertanto, formato oggetto di sostanziale contestazione, in modo da consentirgli di esercitare le sue difese sull’intero materiale probatorio posto a fondamento della [continua ..]


Diversità del fatto

Come abbiamo già accennato, merita un’ampia riflessione il tema del rapporto tra riqualificazione del fatto di reato ex art. 521, comma 1, c.p.p. (operazione squisitamente ermeneutica, che si estrinseca nel ricondurre la fattispecie concreta nell’alveo di una differente norma incriminatrice) e mutamento dell’addebito di cui all’art. 521, comma 2, c.p.p. (attività valutativa che va, invece, a stravolgere l’ori­ginaria imputazione sotto il profilo prettamente fattuale, incidendo su di almeno uno degli elementi essenziali del reato che era stato ascritto all’imputato) [31]. La sentenza in commento concerne, infatti, un altro argomento che è stato croce e delizia degli interpreti con differenti soluzioni interpretative fra dottrina e giurisprudenza: la diversità del fatto. In dottrina, si sono avvicendati prevalentemente due differenti orientamenti sul punto. Secondo un’impostazione esegetica fortemente attenta al dato formale e al diritto di difesa [32], si rientra nell’alveo dell’art. 521, comma 2, c.p.p. ogni qualvolta vi sia una dicotomia tra fatto oggetto dell’esercizio dell’a­zione penale e fatto oggetto della sentenza del giudice [33]. In base a questo indirizzo interpretativo, è precluso al giudicante valutare se nel singolo caso vi sia stata o meno un’illecita compressione dei diritti dell’imputato. Il giudice, a pena di nullità ex art. 522 c.p.p., non può accedere ad una differente qualificazione giuridica del fatto, ma deve necessariamente attivare i meccanismi di garanzia di cui all’art. 521, comma 2, c.p.p. Inoltre, come è stato posto in evidenza [34], le garanzie apportate dall’art. 521, comma 2, c.p.p. dovrebbero estendersi anche al caso di riqualificazione giuridica del fatto in quanto la opposta tesi giurisprudenziale poggia sul discutibile postulato che quaestio facti e quaestio iuris siano nettamente distinte [35]. In realtà, la ricostruzione del fatto e la sussunzione giuridica sono due elementi inscindibili tanto nell’atto di esercizio dell’azione penale quanto nella sentenza. Inoltre, il diritto di difesa deve essere esercitato su ogni tema che rientri nel sindacato del giudice e, considerate le forti implicazioni sul contraddittorio, anche sulla corretta qualificazione giuridica del fatto. Invero, [continua ..]


Il principio di correlazione nelle impugnazioni

Diversamente da quanto sostenuto da parte della dottrina [51], la giurisprudenza ritiene che i poteri di riqualificazione del fatto ex art. 521, comma 1, c.p.p. sono ben spendibili non soltanto dal giudice di prime cure, ma altresì nel grado d’appello [52] e financo in Cassazione [53]. Specificamente, il meccanismo di riqualificazione si estende fino a ricoprire ogni fase dei tre gradi di giudizio purché non si tratti di decisione “a sorpresa” e non venga violato il divieto di reformatio in peius [54]. Anche in sede di impugnazione, la giurisprudenza applica il criterio teleologico. Ne deriva che non sussiste, secondo l’elaborazione giurisprudenziale, violazione del diritto al contraddittorio quando l’imputato abbia avuto modo di interloquire in ordine alla nuova qualificazione giuridica attraverso ad esempio l’ordinario rimedio dell’impugnazione [55], non solo davanti al giudice di secondo grado, ma anche davanti al giudice di legittimità [56]. In tale prospettiva, è stato perciò ritenuto che la diversa qualificazione del fatto effettuata d’ufficio dal giudice di appello, anche direttamente in sentenza, non determini alcuna compressione o limitazione del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l’imputato è chiamato a rispondere qualora la diversa qualificazione fosse nota o comunque prevedibile e non abbia comportato effettive lesioni al diritto di difesa [57], restando, inoltre, esperibile la via del ricorso in Cassazione [58]. Anche se non sono mancati autori [59] che hanno, invece, affermato che il collegio di secondo grado, per poter modificare il nomen iuris, abbia due obblighi. In primo luogo, i giudici d’appello devono pregiudizialmente promuovere la rinnovazione dell’istruzione probatoria ex art. 603, comma 3, c.p.p., finalizzata al contraddittorio sulla possibile variazione della qualificazione del fatto. In secondo luogo, la sentenza necessita di una motivazione rafforzata se si discosta in punto di qualificazione giuridica del fatto dalla sentenza del giudice di prime cure [60]. Secondo quest’impostazione, non sarebbe, infatti, sufficiente l’astratta possibilità che l’imputato possa ipoteticamente prefigurarsi il possibile esercizio del potere ex art. [continua ..]


Conclusioni

La pronuncia in commento, pur conformandosi all’interpretazione della giurisprudenza di legittimità maggioritaria, ha introdotto delle soluzioni innovative. Ciò nella misura in cui gli ermellini hanno ulteriormente allargato la portata dell’art. 521, comma 1, c.p.p. facendovi rientrare anche il caso in cui il giudice dà una qualificazione più grave al fatto di reato allorché vi sia stata una modifica legislativa, come nel caso di specie, del paradigma normativo. Invero, come è stato lodevolmente chiarito, fra i poteri di riqualificazione del giudice, rientra anche quello di modificare il nomen iuris laddove vi sia stato medio tempore un intervento modificatore ad opera del legislatore. Secondo alcuni autori [61], costituisce una precisa prerogativa del giudicante, nei limiti della sua competenza, quella di provvedere d’ufficio ad applicare i principi di diritto penale intertemporale di cui all’art. 25, comma 2, Cost. e all’art. 2 c.p. Se, invece, l’organo di giudizio restituisse gli atti al p.m. dichiarando la nullità del decreto di citazione alla luce di una riforma in peius, ciò costituirebbe un atto abnorme in quanto la sopravvenienza di nuove disposizioni di legge non inficia la validità del decreto ben potendo il giudice dare autonomamente al fatto la corretta qualificazione giuridica. Sennonché, la sentenza in esame non ha utilizzato i meccanismi di cui all’art. 2, comma 4, c.p. in quanto, alla luce dei poteri ricavabili dal principio iura novit curia e dall’art. 521, comma 1, c.p.p., ha applicato retroattivamente la norma penale più sfavorevole così come modificata dall’intervento legislativo che aveva non abrogato, bensì semplicemente innovato il disposto normativo che si trova pertanto in rapporto di continuità normativa con quello previgente (la celeberrima abrogatio sine abolitione). Con ciò, i giudici di legittimità, anziché dare applicazione ultrattiva alla normativa più favorevole precedente alla successione intertemporale di leggi penali, hanno adottato un’interpretazione fortemente elastica del criterio teleologico in materia di poteri di riqualificazione del fatto sussumendo la condotta nel più grave reato. La sentenza in commento, pur avendo dato un’interpretazione fortemente ampia del criterio [continua ..]


NOTE
Fascicolo 5 - 2019