Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Procedimento penale ed intelligence: poche regole tra prevenzione e cooperazione (di Concetta Bottino, Dottoranda in “Law and cognitive neuroscience” – Università degli Studi Niccolò Cusano)


Il terrorismo e le minacce cibernetiche richiedono una sempre più considerevole interazione tra giustizia penale e intelligence.

Questa osmosi ha determinato l’arretramento della soglia del procedimento penale e la creazione di organismi comuni di indagine.

L’esigenza di rendere più snella ed efficiente la collaborazione e il coordinamento investigativo ha spinto il legislatore europeo prima, e quello nazionale poi, ad intervenire, con scelte non sempre armoniche e lineari.

La ricerca ha l’intento di delineare lo stato dell’arte e di abbozzare possibili criticità, in ragione della mancanza di una normativa adeguata alla realtà investigativa prodotta dal contrasto ai pericoli odierni.

Parole chiave: coordinamento investigativo – indagini – squadre investigative comuni – utilizzabilità.

Criminal justice and intelligence: few rules between prevention and cooperation

Terrorism and cyber threats require increasingly considerable interaction between criminal justice and intelligence.

This osmosis has led to a lowering of the threshold of criminal proceedings and the creation of common investigation bodies.

The need to make collaboration and coordination more streamlined and efficient has prompted first the European legislator, and then the national one, to intervene, with choices that are not always harmonious and linear.

The purpose of this research is to outline the state of the art and to sketch some foreseeable criticalities, due to the lack of adequate legislation for the investigative reality produced by the contrast to today’s dangers.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Un nuovo concetto di “prevenzione” - 3. Nuova linfa alla cooperazione: la scelta delle squadre comuni. Il quadro normativo - 4. Segue. I problemi applicativi. L’utilizzabilità degli atti di indagini - 5. Segue. I problemi applicativi. L’utilizzabilità delle informazioni investigative - 6. Brevi conclusioni - NOTE


1. Premessa

La ricerca, l’elaborazione e l’analisi di informazioni utili alla difesa dello Stato o a strategie offensive hanno radici risalenti: in tale contesto, il tempo ha determinato il transito da un’attività definibile di “spionaggio”, totalmente pre-investigativa e de-normativizzata, ad altra che ha progressivamente assunto la forma di una componente necessaria del sistema-Stato e di referente irrinunciabile del potere politico in tema di sicurezza nazionale, nel rispetto tuttavia dei principi democratici fondativi della Costituzione. Non è quindi difficile individuare come, in concreto, l’obiettivo fisiologico dell’attività di intelligence sia la difesa militare dello Stato, la sua indipendenza rispetto ad altri soggetti internazionali e la salvaguardia delle istituzioni poste dalla Costituzione a fondamento della Repubblica. La profonda distinzione tra l’attività di intelligence e quella investigativa è perciò definibile su base teleologica e su un profilo di competenza: i servizi di informazione e sicurezza sono inseriti nella struttura del potere esecutivo al fine di garantire una risposta tecnica alle necessità informative del Governo, mentre le autorità inquirenti (polizia giudiziaria e magistratura) sono espressione dell’autonomo potere giudiziario volto alla prevenzione ed alla repressione dei reati. In questa prospettiva, l’intelligence costituisce lo specchio del Paese in cui opera, influenzandone di fatto strutture, organizzazione ed equilibri di potere, segnatamente esecutivo-giurisprudenziale. Una prima importante precisazione: con il termine intelligence si intende quell’insieme di attività di raccolta ed analisi dei dati necessari alla funzione decisionale del potere esecutivo sul piano della sicurezza [1], che in quanto tale può “fiorire” in contesti pre-investigativi che fanno emergere notizie di reati. Inevitabile, a questo punto, appare la riqualificazione del concetto di “investigazione”, non più intesa come attività conseguente alla verifica del compimento del fatto tipico e antigiuridico e, quindi, indispensabile ad individuarne l’autore e la conseguente punizione, ma come un’attività condotta anche al di fuori del processo penale e per esigenze diverse da quelle inerenti alla ricostruzione dell’evento criminoso. Per questa via, [continua ..]


2. Un nuovo concetto di “prevenzione”

Proviamo a fare chiarezza sui punti certi della sfida cui si è chiamati. È opportuno, preliminarmente, sconfessare un possibile equivoco concettuale che il binomio “funzione preventiva” può ingenerare. Con esso invero si vuole far riferimento alla complessa attività di raccolta e gestione di informazioni, anche detta intelligence, e non, come invece spesso accade, alle misure di prevenzione, con riferimento alle quali è ormai annoso il dibattito circa il concetto di pericolosità e la difficoltà di effettuare una prognosi giudiziale priva di riferimenti astratti e, al contempo, immune da discrezionalità [9]. Il tema non ha neppure ad oggetto l’attività pre-procedimentale, disciplinata dall’art. 330 c.p.p., preordinata alla ricerca della notizia di reato, attività propria del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, ex artt. 326, 55, 348 c.p.p. [10]. La fase attenzionare può definirsi come un frammento procedurale di tipo misto, che ingloba due sistemi differenti, ispirati a finalità e logiche distinte, i cui punti di contatto sono però in continua crescita: il procedimento penale e l’intelligence. Volendo cercare un aggancio normativo capace di dare una collocazione a tale momento e comprenderne i profili in rapporto soprattutto al procedimento penale (angolo visuale privilegiato di queste riflessioni), si potrebbe pensare a quel segmento disegnato, non senza critiche, dall’art. 226 disp. att., c.p.p. [11]. L’istituto, di largo uso investigativo (tanto da aver richiesto, di recente, un intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo [12]), consente anche ai servizi di sicurezza di ricorrere ad intercettazioni e tabulati telefonici e informatici [13], peraltro con presupposti molto meno stringenti che per i servizi di pubblica sicurezza [14]. Delinea, in buona sostanza, un’attività d’indagine (non a caso, di tipo tecnico) tanto delle forze di polizia quanto dei servizi di sicurezza, finalizzata ad agevolare la prevenzione dei reati, pur essendo contemplata nel codice di procedura penale. Val la pena di ricordare, sia pur solo per mera curiosità scientifica, che già l’art. 25-ter, d.l. n. 309 del 1992, ormai abrogato [15], stabiliva che l’uso delle intercettazioni dovesse essere adottato al fine di realizzare attività [continua ..]


3. Nuova linfa alla cooperazione: la scelta delle squadre comuni. Il quadro normativo

La collaborazione e il coordinamento delle funzioni giudiziarie e di intelligence è da sempre, e oggi ancor di più, un’esigenza per il mantenimento della sicurezza nazionale e internazionale. Nel contesto attuale, caratterizzato da una ‘minaccia liquida’, dalla crescente attenzione ai confini mobili tra sicurezza e libertà, la delicatezza degli interessi in gioco richiede una leale collaborazione tra le istituzioni dello Stato. Si è detto però come il processo penale sia uno strumento conoscitivo tendenzialmente impermeabile alle informazioni acquisite al di fuori di esso. Ciò posto, v’è da chiedersi mediante quali modalità e attraverso quali strumenti giuridici si possono acquisire tutte le informazioni utili alle indagini. Occorre cioè analizzare quali mezzi l’ordinamento prevede per salvaguardare il buon esito delle indagini [31]. In questa chiave, il d.lg. 15 febbraio 2016, n. 34, ha introdotto nel nostro ordinamento, sebbene con notevole ritardo [32], la disciplina regolatrice delle squadre investigative comuni (SIC), dando attuazione alla decisione quadro 2002/465/GAI del 13 giugno 2002 [33]. La costituzione delle squadre investigative comuni (joint investigation teams) rappresenta una forma di assistenza operativa di tipo “non rogatoriale”, finalizzata all’accertamento e alla repressione di fenomeni criminosi che coinvolgono l’ambito territoriale di due o più Stati, la cui disciplina è in linea generale delineata, con tratti sostanzialmente uniformi, dall’art. 13 della Convenzione di Bruxelles del 29.5.2000, in materia di mutua assistenza giudiziaria penale fra gli Stati membri UE e dall’art. 20 del II Protocollo addizionale alla Convenzione di Strasburgo del 1959, sottoscritto dagli Stati membri del Consiglio d’Europa l’8 novembre 2001. La principale innovazione è di sistema. Cambia l’approccio alla “investigazione continentale”. Non si tratta più di prevedere misure di coordinamento tra organi inquirenti dei diversi Stati, bensì di individuare uno specifico ambito di azione comune che consenta di operare direttamente e in tempi reali, superando la penalizzazione di ostacoli di carattere formale. Nella prospettiva tracciata dal legislatore europeo le squadre sono costituite, di comune accordo, dalle autorità competenti di due o [continua ..]


4. Segue. I problemi applicativi. L’utilizzabilità degli atti di indagini

Per la verità in questo assetto normativo teso ad una maggiore efficienza, continua a mancare uniformità. Quanto ad utilizzabilità processuale, nel nostro ordinamento, degli atti di indagine compiuti all’este­ro dai membri della squadra investigativa comune, punto di partenza è la scelta del legislatore europeo di adottare il principio della lex loci (art. 1, comma 3, della decisione quadro 2002/465/GAI); principio fatto proprio anche dal legislatore italiano, che all’art. 6, comma 1, d.lgs. n. 34/2016, prevede che “la squadra investigativa comune opera sul territorio dello Stato in conformità alla legge italiana”. Ne discende che – quantomeno per gli atti di indagine compiuti in Italia – non dovrebbero porsi problemi di utilizzabilità nel nostro ordinamento. Più incerto appare il destino degli atti di indagine compiuti all’estero dai membri della squadra: all’art. 6, comma 2, si prevede che i verbali degli atti irripetibili possano entrare nel fascicolo del dibattimento ai sensi dell’art. 431 c.p.p. Il che conferisce particolare efficacia dimostrativa agli atti di indagine compiuti oltre confine. La regola ha valenza generale e si riferisce tanto agli atti eseguiti sul territorio dello Stato quanto agli atti compiuti all’estero, purché la si circoscriva ai soli atti ab origine insuscettibili di reiterazione [41]. Questa precisazione assume particolare rilievo poiché ipotesi diversa si configura per gli atti ripetibili. In tal caso, per fronteggiare il silenzio della decisione quadro, si introduce una regola che lascia più di una perplessità e decisamente in controtendenza non solo con la natura tipicamente transnazionale dell’indagine “comune”, ma anche con la necessità di favorire, in un contesto ormai dominato dal principio del mutuo riconoscimento, la libera circolazione della prova penale nel comune spazio europeo. Invero, l’art. 6, comma 3, afferma che gli atti ripetibili compiuti all’estero hanno «la stessa efficacia dei corrispondenti compiuti secondo le norme del codice di procedura penale», con la logica conseguenza che gli stessi soggiacciono interamente alle regole di utilizzabilità interne. In altri termini, restano ferme le regole di utilizzabilità previste dalla legge nazionale di ciascuno Stato membro che saranno le sole cui fare [continua ..]


5. Segue. I problemi applicativi. L’utilizzabilità delle informazioni investigative

Altro aspetto poco armonico è quello relativo alle informazioni investigative. Il legislatore ha affrontato il tema con marcato pragmatismo. Approccio discutibile, che ha tutta l’aria di eludere il problema senza risolverlo. Negli artt. 4-6 del d.lgs. in esame si prevede, in linea con quanto stabilito dall’art. 1, par. 10, della decisione quadro, un regime di limitata utilizzabilità delle informazioni investigative legittimamente ottenute dai componenti della squadra durante la partecipazione alle attività e non altrimenti disponibili («reperibili», secondo la formulazione letterale dell’art. 6, comma 4, del decreto attuativo) per le autorità competenti dello Stato membro sul cui territorio sono state assunte. A tale riguardo vengono anzitutto in rilievo le finalità pattuite in sede di redazione dell’accordo costitutivo (lett. a) e la possibilità di utilizzare le medesime informazioni allo scopo di individuare, indagare e perseguire altri reati (lett. b), a condizione che vi sia il consenso dello Stato membro interessato, il quale tuttavia può rifiutarlo solo qualora ciò possa pregiudicare le indagini da esso stesso condotte, ovvero nell’ipotesi in cui possa rifiutare l’assistenza giudiziaria proprio ai fini di tale uso. È inoltre possibile fare uso delle informazioni ottenute dalla squadra per scongiurare una minaccia immediata e grave alla sicurezza pubblica (lett. c), nonché per altri scopi concordemente stabiliti dagli Stati che l’hanno formata (lett. d). Sotto questo ultimo profilo, il consenso unanime vale quindi a svincolare l’utilizza­bilità delle informazioni dalla finalità specifica per cui è stata costituita la squadra e per la quale le informazioni sono state inizialmente rese disponibili, indipendentemente da ragioni di gravità o urgenza – cui sembrano riferirsi, anche solo implicitamente, le altre ipotesi analizzate –. Il quadro complessivo che ne viene fuori, dunque, non è particolarmente rassicurante, rischiando di fuoriuscire dalla cornice di legalità probatoria del legislatore del 1988, poiché sembra legittimare prassi in cui la privacy, in mancanza di divieti probatori espressi, «cede al bisogno istruttore» [52]: si registra una certa fluidità nella circolazione delle informazioni col rischio di allontanarsi [continua ..]


6. Brevi conclusioni

Le considerazioni formulate conducono verso alcune riflessioni. Che segreto e legalità siano scomodi amanti è un pensiero diffuso. La realtà è che legalità e segreto sono temi complessi [57], e i risvolti del loro reciproco bilanciamento sono temi essenziali del rinnovato rapporto tra procedimento penale e intelligence. Ai servizi segreti sono affidati compiti specifici: consigliare i Governi, prevedere e prevenire le minacce salvaguardando gli interessi degli Stati e dei suoi cittadini. Nel farlo, gli ordinamenti gli riconoscono attribuzioni particolari: ampi poteri investigativi e di raccolta informativa capaci di superare gli ordinari privilegi di riservatezza, l’assoluta segretezza della propria organizzazione e delle modalità con le quali operano. È l’interazione delle due compagini, processo penale e intelligence a destare problemi. Problemi che pare difficile da sradicare perché corrispondenti, da sempre, a logiche diverse; negli ordinamenti democratici, che postulano l’esercizio del potere pubblico in pubblico [58], la trasparenza è la regola, il segreto l’eccezione, mentre l’intelligence opera osservando la regola del segreto, e poiché non può istituzionalmente rendere manifesto ciò che fa e come lo fa, la sua attività necessariamente sfugge ad un pieno controllo di legalità fondato su regole e procedure che la legge stabilisce palesi e prevedibili. La legalità, che opera come argine all’arbitrio del potere, concorre allora con le necessità imposte dalla tutela della sicurezza collettiva. Una legalità forte si concilia bene laddove l’obiettivo da perseguire sia tipico, e in quanto tale riconoscibile: nel processo penale, dove le garanzie a tutela della libertà personale sono (o meglio, dovrebbero essere) massime, l’obiettivo è quello di ricostruire un fatto storico e confermare o meno una ipotesi di responsabilità penale formulata dall’autorità inquirente. Ma si tratta di un esame sostanzialmente retrospettivo, le cui regole valgono a conciliare le esigenze di ricerca della verità processuale, della formazione delle prove con la presunzione di innocenza e l’inviolabilità della libertà personale, in un’ottica prevalentemente retributiva: per questo l’esercizio del potere penale è mirato e [continua ..]


NOTE