Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Tanti dubbi (e poche risposte) nei nova sulle intercettazioni tra difensore e assistito (di Marilena Colamussi, Professore associato di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Bari “A. Moro”)


Vietare l’intercettazione delle comunicazioni tra difensore e assistito è espressione fondamentale delle garanzie difensive. Eppure, le ricerche empiriche hanno dimostrato come gli avvocati subiscano “di frequente” questa gravissima ingerenza nel rapporto confidenziale con i propri assistiti. La sanzione dell’inutilizzabilità è, all’uopo, tardiva e insufficiente, oltre che fittizia, perché opera solo dopo che l’autorità giudiziaria è venuta a conoscenza del contenuto dei dialoghi riservati, con grave pregiudizio per le garanzie difensive, oltre che per la parità in armi, presidio di un sano contraddittorio. I rimedi introdotti con la recente riforma non risultano assolutamente adeguati; viceversa, essi rivelano molti dubbi e forniscono poche risposte: il novellato apparato normativo, infatti, se in qualche modo tutela la segretezza/riservatezza “esterna” delle comunicazioni tra difensore e assistito, di certo non preclude la conoscenza “interna” da parte degli organi inquirenti. Il destino delle captazioni acquisite illegittimamente resta disciplinato in modo insoddisfacente.

Many doubts (and few answers) in the nova on the interceptions between the defender and the client

Prohibiting the interception of communications between the defender and the client is a fundamental expression of defensive guarantees. Yet, empirical research has shown that lawyers “frequently” suffer this very serious interference in the confidential relationship with their clients. The sanction of unusability is, for this purpose, late and insufficient, as well as fictitious, because it operates only after the judicial authority has become aware of the content of the confidential dialogues, with serious prejudice for the defensive guarantees, as well as for the equality in arms, which is the defence of a healthy debate. The remedies introduced with the recent reform are not absolutely adequate; vice versa, they reveal many doubts and provide few answers: the new regulatory apparatus, in fact, if in some way it protects the “external” secrecy / confidentiality of communications between defender and client, certainly does not preclude “internal” knowledge by the bodies investigators. The fate of illegally acquired captations remains unsatisfactorily regulated.

SOMMARIO:

1. I contatti “riservati” tra difensore e assistito - 2. Le garanzie difensive nel divieto di intercettazione - 3. I destinatari della garanzia - 4. Le comunicazioni tutelate - 5. Il precetto e la sanzione. Dalla teoria alla prassi: un abisso - 6. Il fallimento della riforma - NOTE


1. I contatti “riservati” tra difensore e assistito

La riforma “fantasma” [1] delle intercettazioni telefoniche passerà alla storia per il percorso quanto mai accidentato dell’iter legislativo, sovrabbondante di rimaneggiamenti e cambi di passo fino alla sua entrata in vigore [2], ma anche (forse soprattutto) per i risultati oscuri e deludenti, specie sul piano delle garanzie difensive [3]. Quanto meno, i correttivi apportati alla disciplina delle intercettazioni tra difensore e assistito recano il “sigillo” di stampo accusatorio dell’intangibilità del binomio parte/difesa unica [4], con gli indefettibili correlati di riservatezza, fiducia e confidenzialità. L’assistito fa affidamento sul difensore, sia esso di fiducia o d’ufficio, per comprendere le regole del giudizio, le modalità di interlocuzione e coinvolgimento, nonché le implicazioni derivanti da ogni scelta processuale. Per contro, il difensore fornisce i ragguagli “tecnici”, di proprio appannaggio, fondamentali a traghettare il “difeso” nell’iter giudiziale e sollecita il percorso di comprensione del disvalore della condotta, spesso non percepito da chi commette un fatto penalmente rilevante. Di più, l’avvocato vive la compassione per la vittima, alla quale offre quel sostegno umano che non può esserle negato. Lo scambio di informazioni, dati, comunicazioni, tra difensore e difeso presuppone totale fiducia dell’assistito verso il proprio legale, non solo referente ufficioso ed ufficiale, bensì anche confidente privilegiato, gravato dal vincolo della segretezza professionale, che non è connivenza, ma difesa secondo i canoni di libertà [5], riservatezza [6], deontologia professionale [7] e lealtà processuale. Sulla base di tali valori sembra erigersi la disciplina generale delle “garanzie di libertà del difensore” che, sin dalla sua versione originaria, fa perno, tra l’altro, sul divieto assoluto di intercettazione delle conversazioni o comunicazioni tra difensore e assistito [8] (ex art. 103, comma 5, c.p.p.). Il divieto si estende ai colloqui con i consulenti tecnici e i loro ausiliari, nonché, da ultimo, «agli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento» [9]. L’art. 103, comma 7, c.p.p. prevede un potenziamento del divieto in parola, sancendo [continua ..]


2. Le garanzie difensive nel divieto di intercettazione

In tema di captazioni risaltano (al meno) due direttrici generali: in primis, per una disciplina equilibrata della materia occorre coniugare più valori (riservatezza, privacy, diritti di difesa, diritti alla prova, libertà fondamentali in materia di movimento, corrispondenza e domicilio, diritti alla celebrazione di un processo giusto ed efficiente, ex artt. 2-13-14-15-24-111 Cost.) [20]; in secundis, questo strumento investigativo ha un’indiscussa rilevanza pratica: per quanto invasivo, esso consente di raggiungere risultanze probatorie definite «ad alto tasso di rendimento» [21] sul terreno dell’efficienza delle indagini. I benefici sul piano del rendimento non giustificano, con ogni evidenza, un abuso dello strumento, che avrebbe ricadute in termini di compromissione del diritto di difesa e di altri canoni del “giusto processo” (basti pensare alla parità in armi [22], al contraddittorio [23], all’onere della prova in capo all’accusa, che non può, e non deve, trarre beneficio sul terreno investigativo a discapito delle garanzie difensive [24]). Ben oltre la «suggestione del segreto professionale quale matrice della garanzia» [25], il divieto di captazione, di cui all’art. 103, comma 5, c.p.p., è presidiato dal principio d’inviolabilità del diritto di difesa [26]. Per coerenza con il dettato dell’art. 24, comma 2, Cost., che investe tanto la sfera tecnica, quanto l’esercizio consapevole della difesa materiale (o autodifesa) [27], il flusso di informazioni, comunicazioni, scambi tra assistito e difensore deve essere libero [28], schermato da qualsiasi intrusione giudiziaria, protetto dal vincolo del riserbo, e non condizionato dal timore di subire qualsiasi forma di captazione [29]. Non a caso, il divieto di intercettazioni delle comunicazioni tra assistito e difensore si inserisce nella roccaforte delle “garanzie di libertà del difensore”, da non fraintendere come un privilegio di casta, né come un’immunità associata allo status del professionista, bensì quale prerogativa essenziale per l’esercizio delle funzioni difensive [30]. A rimarcare la rilevanza autonoma attribuita al ruolo e, soprattutto, all’attività concreta svolta dal difensore [31], l’art. 103, comma 5, c.p.p. pone un divieto assoluto [continua ..]


3. I destinatari della garanzia

La normativa su conversazioni e comunicazioni tutela oggi più soggetti che in passato, come i membri del team difensivo (difensori [38], investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, consulenti tecnici e relativi ausiliari, quali impiegati, collaboratori autonomi, ecc.) e i rispettivi assistiti, ovvero tutti i soggetti coinvolti a vario titolo nel procedimento penale, a partire dalla persona sottoposta alle indagini, dall’imputato, dalle parti private, per continuare con la persona offesa e il rappresentante dell’ente e/o associazione rappresentativa degli interessi lesi dal reato. Si ritiene che la tutela si estenda ai “terzi” indirettamente coinvolti nella vicenda giudiziaria; è il caso della persona informata sui fatti che venga contattata telefonicamente dal difensore allo scopo di svolgere un “colloquio investigativo” [39]. Per coerenza logica e sistematica, posto che la disciplina di cui all’art. 103 c.p.p. è plateale espressione delle garanzie difensive di matrice costituzionale, anche il termine “difensore” va letto in senso ampio, secondo l’orientamento più garantista, che tutela l’attività difensiva senza circoscriverla ad un procedimento specificamente e temporalmente individuato [40]. Già sul piano testuale, del resto, la norma adotta sempre l’espressione “difensori” al plurale [41], e non precisa l’attinenza del divieto di intercettazioni al procedimento in cui il difensore esercita il proprio ministero, a differenza della precedente versione (art. 226-bis c.p.p. 1930) [42] e di quanto attualmente previsto per gli investigatori privati autorizzati. Sono difensori, dunque, sia coloro che svolgono l’attività professionale, nominati d’ufficio o di fiducia [43], nella fase cognitiva o esecutiva, sia coloro che in termini preventivi, o semplicemente consultivi, elargiscono pareri, consigli, assistenza professionale, pur se sprovvisti di un regolare mandato in relazione ad una specifica vicenda giudiziaria [44]. Non è l’investitura formale che sigilla la garanzia di libertà e autonomia nell’esercizio della funzione difensiva (e il conseguente divieto di intercettazioni delle comunicazioni), ma il ruolo svolto dal professionista quando assiste il proprio cliente, anche in vicende giudiziarie distinte e [continua ..]


4. Le comunicazioni tutelate

Il divieto d’intercettazione delle conversazioni e/o comunicazioni tra difensore e assistito ha ad oggetto l’esercizio della funzione difensiva [49], per qualsiasi vicenda giudiziaria (di natura penale, civile, amministrativa, tributaria, etc.) e in qualsiasi fase del procedimento [50]. Vi rientrano tutte le comunicazioni di natura professionale promosse dalle utenze del difensore, o destinate a lui, ai suoi ausiliari e ai membri tutti del polo difensivo, come pure tra costoro e le persone assistite, nonché le comunicazioni ad essi indirizzate in quanto provenienti dall’imputato legittimamente sottoposto a controllo. Non operano limitazioni legate a localizzazioni e utenze specifiche; ne beneficia qualsiasi comunicazione relativa all’esercizio dell’attività difensiva, anche se effettuata o proveniente da un domicilio o da un’utenza altrui, occasionalmente utilizzati dal difensore [51]. La tutela, infatti, è connaturata con il ruolo e la funzione svolte nella veste professionale da parte di tutta l’équipe difensiva [52], che deve essere posta in condizioni di operare nella piena libertà di autodeterminazione e, soprattutto, senza il timore di incursioni [53], ovvero di “invasioni di campo”, da parte del­l’organo inquirente. Non vi rientrano le conversazioni che integrino o agevolino la commissione di un reato [54], nel qual caso il difensore gravato da rilevanti indizi di reità, se ricorrono i presupposti di cui agli artt. 266 ss. c.p.p., sarà legittimamente destinatario delle intercettazioni, dal momento che non gode (né può godere) di un’immunità di casta [55].


5. Il precetto e la sanzione. Dalla teoria alla prassi: un abisso

Il divieto di captazione delle comunicazioni tra difensore e assistito è uno sbarramento ineludibile; la legge inibisce anche la verifica postuma sui contenuti della conversazione [56]. La violazione del divieto comporta quanto meno la sanzione dell’inutilizzabilità, prevista in chiusura dell’art. 103, comma 7, c.p.p., che va letta come paracadute per il caso in cui ci si sia imbattuti “occasionalmente” in una conversazione che coinvolga difensore e assistito; tuttavia, l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni illegittimamente acquisite è «un rimedio postumo, attivabile solo qualora il divieto non abbia patologicamente operato» [57]; meglio centrata è la conseguenza dell’impossibilità di ascoltare le intercettazioni, perché a monte illegittime [58]. La clausola di salvezza di cui all’art. 271 c.p.p., presente nell’incipit dell’art. 103, comma 7, c.p.p., denota la volontà del legislatore di regolamentare secondo una logica di sussidiarietà la relazione tra le due norme. Così, alle intercettazioni illegittime che coinvolgono le conversazioni tra il polo difensivo e l’assistito si applica la disciplina speciale di cui all’art. 103, comma 7, c.p.p., «sin dove le previsioni contenute nell’art. 271 c.p.p. si rivelino, rispetto ad essa, superflue o incompatibili» [59]. Ne consegue l’assolu­to divieto di captazione; l’operatore giudiziario che vi sia preposto ha il dovere di interrompere immediatamente le operazioni d’intercettazione nell’istante in cui prende atto che si tratti di una captazione illegittima, in quanto intercorrente tra assistito e difensore nell’esercizio delle sue funzioni, dandone conto nel relativo verbale [60]. Purtroppo, questo quadro teorico è disatteso dalla prassi applicativa, dove gli organi inquirenti, pur non utilizzando processualmente i risultati delle captazioni, “sfruttano” gli stessi a supporto delle indagini, dunque per il conseguimento di fini endo-investigativi. Così, nel processo penale, gli avvocati subiscono “di frequente” una gravissima ingerenza nel rapporto confidenziale con i propri assistiti, che si traduce non solo nell’intercettazione ma anche nella trascrizione dei colloqui [61]. Qui, la sanzione della inutilizzabilità [continua ..]


6. Il fallimento della riforma

L’ampliamento delle maglie dell’art. 103, comma 7, c.p.p., sembra prendere atto della diffusa violazione del divieto di intercettazione delle conversazioni e/o comunicazioni tra difensore ed assistito, senza formulare un utile rimedio. L’explicit è la sanzione dell’inutilizzabilità: il giudice non potrà formare il suo convincimento tenendo conto dei risultati di dette captazioni, secondo quanto già previsto nella versione originaria della disciplina. La nuova formula normativa recita «Fermo il divieto di utilizzazione di cui al primo periodo…». Il nucleo della riforma è l’espresso divieto di trascrizione, anche sommaria, delle comunicazioni “comunque” intercettate, divieto mutuato dalle linee guida elaborate dalle Procure più attente [65], in concomitanza con l’obbligo di indicare nel verbale delle operazioni soltanto gli estremi della comunicazione riservata (data, ora e dispositivo su cui la registrazione è intervenuta). Tra le comunicazioni e conversazioni “comunque” intercettate rientrano anche quelle captate fortuitamente, incidentalmente, ovvero che occasionalmente coinvolgano un membro del team difensivo e l’assistito. La garanzia è solo apparente. A ben guardare, la disciplina così concepita presidia, peraltro in modo incompleto, solo la segretezza/riservatezza esterna delle comunicazioni tra difensori e assistito, ma non preclude la conoscenza “interna” da parte degli organi inquirenti, i quali possono tranquillamente ascoltare i contenuti di dette comunicazioni (senza riportarle a verbale) per cogliere dati, informazioni e strategie difensive nella più evidente violazione del diritto di difesa e della parità in armi [66]. Come già anticipato, il legislatore avrebbe dovuto prevedere l’immediata interruzione delle captazioni con stralcio e distruzione del materiale illegittimamente percepito, di cui non dovrebbe assolutamente restare alcuna “traccia” [67]. Al contrario, pur non essendo oggetto di trascrizione (neppure sommaria) nel verbale delle operazioni, l’“annotazione” non sembrerebbe espressamente vietata (eppure dovrebbe esserlo!). Così, l’ufficiale di polizia giudiziaria, preposto alle operazioni d’intercettazione, potrà annotare il contenuto delle captazioni in attesa di confrontarsi [continua ..]


NOTE
Fascicolo 5 - 2021